
Il coreografo racconta la sua vita tra arte, amicizia e Umbria
A cura di Ilaria Solazzo
Ci sono artisti che non si limitano a eseguire movimenti, ma riescono a trasformare ogni gesto in un linguaggio universale capace di toccare l’anima. Stefano Forti, ballerino e coreografo di straordinario talento, ha portato la sua arte sui palcoscenici di tutto il mondo, comunicando emozioni autentiche e profonde che hanno lasciato un segno indelebile negli occhi e nei cuori di chi lo ha ammirato. Le sue esibizioni continuano a incantare migliaia di spettatori e fan, confermando la danza come uno dei mezzi più potenti per raccontare la bellezza dell’essere umano.
Incontrare Stefano Forti significa entrare in una dimensione dove il corpo parla, ma è l’anima che danza. La sua è una carriera costruita con grazia, rigore e umiltà: dalla formazione alla coreografia, dall’insegnamento alla direzione artistica, ogni sua tappa è intrisa di autenticità. Ma Stefano non è solo un artista. È un uomo che ha scelto di vivere con coerenza, in ascolto del proprio tempo interiore, in profondo dialogo con le persone, la terra e la memoria.
In questa intervista – che è molto più di una conversazione – si intrecciano le sue radici nazionali, il legame con il Festival dei Due Mondi, l’amore per la danza come atto sacro, l’eco della figura luminosa di Raffaella Carrà e la presenza silenziosa ma viva di San Francesco. E poi c’è spazio per l’amicizia, per la dignità, per i giovani e per il futuro.
Leggere le sue parole è come assistere a una coreografia fatta di verità e delicatezza. Un passo dopo l’altro, Stefano ci accompagna in un viaggio che parla di arte, ma soprattutto di vita.
Benvenuto, caro Stefano, su GlobusMagazine, grazie per essere con noi e per aver accettato il nostro invito. Iniziamo da un grande classico: il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Cosa ha rappresentato e rappresenta per te?
Il Festival dei Due Mondi, famoso in Italia ed all’estero, è un ponte tra culture, tempi e sensibilità. Spoleto, durante quei giorni, si trasforma: non è solo una città che ospita un evento prestigioso, è una città che diventa arte. Si respira danza, teatro, musica in ogni angolo, e l’intera comunità si mobilita. È una celebrazione dell’incontro, tra mondi e linguaggi, ed è per questo che continua a emozionarmi ogni volta.
L’Umbria ha un ruolo fondamentale anche oltre il Festival. Che significato ha per te questa regione?
L’Umbria è una terra che ti parla con voce bassa, ma che entra dentro e non ti lascia più. Ha un’energia particolare: mistica, densa, autentica. Ogni borgo, ogni collina ha qualcosa da raccontare. Per chi vive d’arte e di emozioni, è un luogo che rigenera e ispira. Non è un caso che qui siano nati o abbiano trovato rifugio poeti, santi, filosofi…e non solo! È come se questa terra custodisse da secoli un’armonia segreta, che si trasmette in ogni forma creativa.
Durante il Festival, però, non si vive solo di spettacoli. C’è anche la dimensione sociale, gastronomica…
Assolutamente. Il Festival è anche convivialità, è stare insieme. Dopo un balletto o un concerto, ci si ritrova nelle trattorie, nei ristoranti tipici, a commentare ciò che si è visto… ma anche a godere della straordinaria cucina umbra. Io non resisto alle lenticchie di Castelluccio, alla torta al testo con il prosciutto, al tartufo nero di Norcia. La cucina umbra è schietta, concreta, ma con una profondità che sorprende. Un pranzo o una cena, in Umbria, diventano parte integrante dell’esperienza culturale.
L’Umbria, però, è anche spiritualità. So che hai un legame speciale con San Francesco d’Assisi.
Francesco è per me un punto fermo. Non solo come figura religiosa, ma come esempio di autenticità. La sua è una danza interiore, fatta di silenzi, di sguardi, di rispetto per ogni forma di vita. Ogni volta che metto piede ad Assisi, ho l’impressione di rallentare, di respirare meglio. Credo che ogni artista debba, prima o poi, confrontarsi con quel tipo di semplicità profonda. San Francesco ci insegna che l’arte, come la fede, non ha bisogno di orpelli: ha bisogno di verità.
E poi c’è una figura amatissima che, come te, aveva un legame profondo con questa terra: Raffaella Carrà.
Raffaella era un uragano di vitalità. Per noi che lavoriamo con il corpo, è stata un faro. Ma pochi sanno quanto fosse legata all’Umbria dove vi si recava spesso per cercare silenzio, equilibrio. Amava passeggiare tra gli ulivi, parlare con la gente del posto. E pensare che una donna così solare e travolgente trovasse pace in questa terra silenziosa è commovente. C’era un legame profondo, spirituale quasi.
Se dovessi immaginare un omaggio a lei al Festival dei Due Mondi, come lo penseresti?
Sarebbe un evento corale, all’aperto, magari proprio ad Assisi, tra gli ulivi. Un grande spettacolo di danza ispirato alle sue coreografie. Un tributo alla sua energia, ma anche alla sua profondità umana. Vorrei che ci fosse musica, certo, ma anche silenzio. Perché Raffaella era anche questo: una donna che ha saputo brillare, ma che sapeva fermarsi, ascoltare, sentire. L’Umbria le restituiva l’anima. E oggi, l’arte può restituire memoria.
Che augurio faresti al Festival dei Due Mondi e a chi fa arte in Italia oggi?
Di non smettere mai di cercare senso. Di non aver paura del silenzio, della fatica, della lentezza. L’arte non è solo intrattenimento: è necessità, è battito, è salvezza. E l’Umbria, con la sua bellezza discreta, continuerà a essere un rifugio e una fucina. Come lo è stata per San Francesco, per Raffaella, e per chiunque abbia ancora voglia di danzare, davvero con l’anima e con Amore.
Stefano, dopo tanti anni di carriera, progetti, incontri e palchi, qual è oggi il tuo senso della vita?
Oggi il senso della mia vita è restituire. Restituire tutto ciò che l’arte mi ha dato, tutto ciò che ho imparato, tutte le emozioni che ho vissuto danzando, insegnando, viaggiando. Mi sento un tramite, un ponte tra generazioni. Non cerco più il riflettore su di me, ma su chi ha bisogno di essere visto, ascoltato, incoraggiato. La danza mi ha insegnato il rispetto, il sacrificio, la bellezza dell’ascolto. Ora il mio compito è trasmettere questi valori. E poi, personalmente, il senso della vita sta anche nel rallentare, contemplare, vivere il presente. A volte basta un tramonto in Umbria, un passo fatto bene, un sorriso di un allievo. E tutto torna a casa.
Stefano, su quali valori basi oggi la tua vita, sia personale che professionale?
I valori per me sono come fondamenta. Senza, tutto crolla. Primo fra tutti, il rispetto: per le persone, per i tempi degli altri, per il lavoro e per se stessi. Poi c’è la verità, intesa come coerenza: essere autentici, non indossare maschere. In un mondo dove si è spesso costretti a mostrarsi sempre al meglio, io scelgo l’autenticità, anche nella fragilità. La disciplina, ereditata dalla danza, mi ha insegnato a non arrendermi, a essere costante. E infine l’ascolto: ascoltare chi ho davanti, chi studia con me, chi condivide un palco o un progetto. Senza ascolto, non esiste relazione. E senza relazione, non esiste arte.
Stefano, in un tempo così complesso, ti chiedo una parola importante: per te, cosa rappresenta oggi la dignità?
La dignità è la spina dorsale dell’essere umano. È ciò che ti fa stare in piedi anche quando tutto attorno crolla. Per me significa non svendersi, non tradire i propri valori per un applauso, un contratto o un like. Vuol dire saper dire no, anche quando il sì sarebbe più comodo. È rispetto di sé e degli altri, è lavorare con onestà, è dare il giusto valore al tempo, all’impegno, alla fatica. Anche nella danza, la dignità si manifesta nel modo in cui ci si comporta con il proprio corpo, con il pubblico, con i colleghi. È una forma di silenziosa nobiltà. Oggi più che mai, la dignità è rivoluzionaria.
Stefano, parlando con te mi accorgo ogni volta di quanto la tua visione dell’arte sia legata alla vita. E oggi vorrei portare in questo dialogo anche una dimensione più personale. Siamo amici da anni, abbiamo condiviso tante confidenze. Cos’è per te l’amicizia?
L’amicizia, per me, è una casa che non ha bisogno di porte chiuse. È uno spazio libero in cui si può essere se stessi, senza filtri, senza paura di essere giudicati. L’amicizia vera è rara e preziosa, perché resiste al tempo, alla distanza, perfino alle incomprensioni. È come una danza silenziosa: a volte si balla insieme, altre volte si lascia spazio, ma si resta sempre in ascolto. La nostra amicizia, ad esempio, nasce proprio da questo rispetto profondo: ci siamo sempre accompagnati senza invaderci, e ci siamo trovati nei momenti giusti, quelli che contano. Per me è una forma d’arte anche questa. E come ogni forma d’arte, va coltivata con cura e verità.
Grazie, Stefano. È bello sentire che, anche in un mondo spesso frenetico e competitivo, ci sia spazio per relazioni autentiche. E forse è proprio questo che rende la tua arte così sincera: viene da un cuore che non ha mai smesso di battere al ritmo della vita.
E io ti ringrazio per essere una presenza gentile e costante nel mio percorso. L’amicizia, come l’arte, ha bisogno di occhi che vedono e mani che sanno tenere senza stringere. La tua è sempre stata una mano che accompagna, mai che trattiene o inganna… E questo fa tutta la differenza.
Intervistare Stefano Forti non è mai un semplice atto professionale. È un viaggio, una sospensione del tempo, un’immersione nei gesti e nei silenzi di un’anima che ha fatto della danza non solo un mestiere, ma una visione del mondo. Ogni sua parola è un passo, ogni pausa un respiro che racconta molto più di ciò che dice.
In lui convivono la disciplina del danzatore, la sensibilità dell’artista, la profondità di chi ha imparato a convivere con la fatica, con la solitudine, con la bellezza. Oggi, ascoltandolo parlare di Spoleto, dell’Umbria, di San Francesco, di Raffaella Carrà, ma anche di dignità, di amicizia, ho avuto la sensazione di trovarmi davanti a un uomo che non ha mai smesso di cercare senso, anche quando la scena si spegne e il sipario cala.
Stefano è uno di quegli esseri rari, speciali, che non confonde la luce dei riflettori con il valore della propria voce. È uno che sa dove poggiare i piedi, perché ha imparato a danzare anche nelle stanze buie della vita. E forse è proprio per questo che riesce a insegnare, a ispirare, a restituire.
Questa intervista è stata, per me, un incontro con l’essenziale. Con ciò che resta, quando tutto il resto passa.
Commenta per primo