
Santo Chiodo di Spoleto, l’ospedale delle opere d’arte
di Lucio Biagioni
SPOLETO – Soprattutto campane, di varie misure, staccate dai campanili a vela delle piccole chiese, caratteristici dell’Appennino umbro-marchigiano. E poi quadri, pale d’altare, candelieri, colonne lignee, piccoli pùlpiti, basamenti, lesene, fregi, ornamenti lapidei, statue, angioletti mutilati, crocifissi scheggiati, cornici spezzate.
Hanno portato tutto lì, dopo il terremoto, gli operatori dell’Unità Regionale di Crisi e della Sovrintendenza, a Santo Chiodo di Spoleto, in quella struttura ch’era stata pensata sùbito dopo il sisma che colpì la Valnerina del 1997, e, dopo un ventennio di calma, tornata improvvisamente utile dopo le scosse di agosto e ottobre 2016, nel “cratere” umbro-marchigiano, del più forte terremoto che si ricordi da un bel pezzo.
È il Centro Operativo per la Conservazione, la Manutenzione e la Valorizzazione dei Beni Storici, Artistici, Archivistici e Librari, ospitato in una struttura ultimata nel 2010, che ieri pomeriggio è stata visitata da una delegazione del Comitato di Sorveglianza del Por-Fesr e del Fondo Sociale Europeo, nell’ambito dei lavori della sessione unita che, come ogni anno, il Comitato compie in Umbria per una verifica del lavoro svolto e delle prospettive future.
“In sonno”, ovvero sottoutilizzata per anni, tanto da suscitare qua e là l’immancabile critica miope sulla sua effettiva necessità, dopo l’estate scorsa la struttura si è rivelata decisiva per le operazioni di salvataggio, messa in sicurezza, catalogazione e restauro delle opere d’arte, grandi e piccole, disseminate in quel villaggio diffuso che sono gli storici territori delle zone terremotate.
Gli ampi spazi del Centro, progettato con avanguardistici criteri antisismici dall’architetto Bruno Gori e finanziato con fondi comunitari, si sono in poco tempo riempiti di pezzi, oggetti e frammenti, che, in mancanza di esso, non avrebbero trovato quel coordinato e rigoroso asilo che consentirà loro, in un tempo più o meno lungo, di risanare le proprie ferite e tornare a vivere, per animare quei luoghi di cui sono storia, memoria e radice identitaria.
Non tutto quello che è stato raccolto e affidato alla custodia del Centro, del resto, è danneggiato. Al salvataggio delle opere sotto le macerie, o rimaste miracolosamente in piedi nella devastazione, come la famosa pala della Vergine di Jacopo Siculo nella Chiesa di San Francesco a Norcia, si sono accompagnati, ha spiegato il responsabile Gianluca Delogu, interventi precauzionali di rimozione di opere intatte da strutture pericolanti, che convivono felicemente a Santo Chiodo con le loro sorelle malate.
La metafora ospedaliera, del resto, ispira e colora tutti gli interventi degli operatori. La prima sala, dove le “ambulanze” di furgoni e camion sono entrate direttamente con il loro prezioso carico, viene paragonata all’”Accettazione”.
Poi c’è l’”Astanterìa”, in cui le opere stazionano, meticolosamente catalogate, prima di essere smistate al “Pronto Soccorso”, dove ricevono un primo trattamento di messa in sicurezza, per poi essere dirottate verso più profondi e intenzionalmente durevoli interventi di restauro.
La cura, del resto, e la passione degli operatori, non è inferiore a quella che si dedicherebbe a malati in carne ed ossa: e tali ricordano, nelle “corsie” rappresentate da modernissime scaffalature, quei crocifissi e angeli e santi e madonne che giacciono in lunga teoria con i loro arti amputati dalla furia del sisma, che pazientemente attendono di essere riattaccati.
L’opera di primo restauro è affidata alle mani esperte dei tecnici dell’Opificio di Pietre Dure di Firenze, divisi in tre gruppi che si avvicendano nella cura del tessile, del legno, dell’oreficeria, dei bronzi, delle ceramiche, dei materiali lapidei. Così come è stato interamente salvato il patrimonio costituito dagli antichi strumenti chirurgici di Preci, provenienti dalla ex-Chiesa di Santa Caterina.
Ma anche l’opera di catalogazione (immagini “diagnostiche” e schede “conservative”, miranti a comporre una sorta di “atlante” dei beni) gioca un ruolo chiave. Con oltre cinquemila reperti pervenuti, il rischio di perderne le tracce, e di pregiudicarne la successiva restituzione al territorio, sarebbe altissimo senza l’opera davvero certosina degli operatori.
C’è in gioco, dice Delogu, la memoria dei territori, l’identità della gente. Ricordare è essenziale, sembra ammonire, salvata intatta dai crolli e custodita a Santo Chiodo, la Madonna Addolorata con la Spada della Chiesa di San Filippo Neri di Norcia, carissima alla devozione popolare.
“Si tratta di una struttura unica in Italia”, sottolinea Delogu, “una scelta lungimirante che si è rivelata decisiva nell’avversità”. Anche questo significa prevenire. E ragionare concretamente che i terremoti hanno tempi geologici, che non coincidono con quelli biografici o, peggio, quelli della politica “miope”, schiacciata su un presente che pare eterno e non lo è.
Allora si ricostruisca, con tecniche sempre migliori, flessibili, leggiere come dovrebbe essere la modernità se non ci fossero le guerre, e tutt’intorno il tessuto di beni e servizi necessari per vivere in pace. La storia umana, diceva con Francesco e Benedetto Bernardo Silvestre, corre lungo lo stesso vettore della storia sacra, che è una conquista ininterrotta. L’ordo, l’ordine, non implica l’idea di una stabilitas immobile. È un frutto della vita activa, dell’impegno, processo dinamico, rinascita inesauribile. Non dimentichi, chi amministra.
Commenta per primo